Non temere più le tempeste

La fiducia, non saprei dire se si prova più gioia nel trovare qualcuno su cui possiamo riporla o nel riceverla dagli altri, di fatto non possiamo vivere senza, è sempre impagabile.
A noi cristiani è data una grande possibilità, quella di fare della nostra vita una straordinaria esperienza di fiducia.
Il brano del vangelo di oggi, la tempesta sedata, è un invito a entrare decisamente in questa esperienza, a costruire un rapporto di fiducia totale con Gesù. Ma c’è qualcosa in più: non ci invita soltanto ad avere fiducia in Gesù, ma ad averla in Gesù che dorme.
Erano salpati di fretta verso l’altra sponda del lago mentre scendeva ormai la sera, Gesù sedeva a poppa. Esplode una tempesta improvvisa, la barca si riempie di acqua mentre, incredibilmente, egli si assopisce come se niente fosse. Gli apostoli sull’orlo della disperazione lo svegliano con una certa brutalità: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

La nostra vita sembra proprio quel lago, calmo, a volte perfino piatto, poi all’improvviso in tempesta. Siamo così fragili… basta una cattiva notizia, una diagnosi preoccupante, un affetto che si spezza. Ci sembra allora di affondare, ci assale la paura di non farcela e iniziamo a temere che Dio ci abbia dimenticati, che in fondo non gli importi nulla di noi. Non abbiamo capito che avere in barca un Dio che dorme non significa che ci stia trascurando, ci sta semplicemente mostrando che non c’è nulla da temere.
Notiamo un dettaglio importante: Dio non ci preserva dalle tempeste, ma ci sostiene dentro di esse. La fede non è un’assicurazione contro gli infortuni, è la misteriosa forza che ci permette di affrontarli.

Dopo che Gesù ha riportato il mare alla bonaccia pone agli apostoli questa domanda: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E anche qui capiamo qualcosa di nuovo: il vero avversario della fede non è l’ateismo, non la superstizione, neppure il bigottismo, ma la paura. Ogni nostro giorno è segnato dalla lotta tra questi due nemici che si contendono il nostro cuore. Quale dei due preferiamo nutrire?

Cosa possiamo fare per sconfiggere la paura con la fede? Il vangelo offre subito due suggerimenti (è molto bello che quando la Bibbia ci chiede un passo importante ci spiega anche in che modo farlo):

1. All’inizio del brano leggiamo che gli apostoli presero Gesù in barca con sé, così com’era. Prenderlo con noi, sulla nostra barca, ogni mattino, vivere la giornata insieme a lui, non lasciarlo mai a terra, anche quando il mare è calmo!
2. “Passiamo all’altra riva” dice Gesù. È lui che dà la direzione. Se sarà anche la nostra guida non avremo più da temere nessuna tempesta.

I giorni dell’abbandono confidente

Può capitare a tutti, nel cammino della vita, di cadere in una contraddizione che ha qualcosa di tragicomico: chiedere aiuto a Dio e contemporaneamente impedirgli di darcelo. Vorremmo che intervenisse nella nostra vita ma nello stesso tempo gli togliamo lo spazio per operare. Il motivo è quasi sempre lo stesso: vogliamo fare tutto noi. Non solo il corpo e la mente, ma anche l’anima può ammalarsi di iperattività e dimenticare che c’è Qualcuno che si prende cura di noi. 

Nelle Scritture è presente una linea di pensiero che potremmo intitolare “Lasciami fare”. Per esempio il salmo 127 dice: “Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore: il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno”. Esiste una dimensione della fede che non spinge tanto ad agire quanto a lasciare che sia Dio a farlo. Un’azione che consiste semplicemente nell’acconsentire e affidarsi. A qualcuno potrebbe sembrare troppo comodo, in realtà è il lavoro più faticoso: spostare noi stessi rinunciando all’idea di essere insostituibili.

Gesù raccontò di un seme nascosto nella terra che sembra ormai perduto finché un giorno eccolo spuntare, germogliare e portare frutto (cfr. Mc 4,26-32). Ormai pensavamo che quel seme avesse deluso le aspettative, invece aveva semplicemente bisogno di tempo. Sono tanti quelli che fremono nell’attesa di questi germogli: genitori che affermano di non vedere nei figli i frutti che desideravano, educatori frustrati, parroci scontenti della loro comunità, chi sta aspettando una risposta importante, una telefonata decisiva, chi soffre perché non ha ricevuto corrispondenza a un’amicizia o a un’amore offerti. Spesso si è tentati di intervenire drasticamente, di forzare i tempi, il vangelo invece ci invita alla calma fiduciosa, come anche secoli prima Isaia con parole che non hanno smesso di riscaldare il cuore: «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Is 30,15.18). “Abbandono confidente”, che meraviglioso atteggiamento. C’è un tempo in cui non si può fare nulla, uno stato di inattività da accettare. Questo inverno dello spirito è una stagione dura da vivere, tutto sembra perduto. Inutile, anzi dannoso, sarebbe poi andare a scavare per vedere se sotto terra sta succedendo qualcosa, per il seme vorrebbe dire la rovina. Si può solo attendere. C’è una vita che si prepara a sbocciare e che ha bisogno di silenzio e di fiducia, finché un giorno…

Avere Gesù come figlio o come fratello


La folla lo insegue anche dentro casa e non tutti riescono a entrare. Proprio lì, in mezzo a tanta gente, Gesù deve affrontare due gruppi di persone che vorrebbero metterlo a tacere. Il primo è quello degli scribi, mandati da Gerusalemme con l’incarico screditare e diffamare quel profeta galileo troppo pericoloso per i loro interessi.

Il secondo gruppo viene addirittura da Nazaret, sono i suoi parenti. Erano trascorsi pochi mesi da quando aveva lasciato il suo paese per andare in giro ad annunciare il regno di Dio. I suoi familiari, però, non ne sono entusiasti, non riescono a capire quello stile di vita errabondo, quella folla opprimente che gli impedisce persino di mangiare. Pensano che stia esagerando, che la situazione gli sia sfuggita di mano, che sia fuori di sé. Sono arrivati lì decisi a riportarlo sotto il campanile. Fermiamoci su questo loro infelice tentativo. I parenti, rimasti fuori da quella casa, lo mandano a chiamare, Gesù risponde loro in un modo che ci apre a una nuova comprensione della vita cristiana: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me e fratello, sorella e madre» (Mc 3,33-35).

Intorno a lui è nata una nuova famiglia. Chi ne fa parte? Tutti coloro che fanno la volontà di Dio. Perché la volontà di Dio è qualcosa che si fa, si pratica, si vive. Non è una sventura che dobbiamo accettare a malincuore. È, in breve, quel modo di vivere basato sull’amore, sul donare se stessi, che Gesù ha insegnato con il suo esempio. Quando viviamo così succede che tra noi e lui nasce un rapporto nuovo, strettissimo, indistruttibile. Si diventa parenti, acquisiti d’accordo, ma più intimi dei parenti ufficiali.

«...costui per me è fratello, sorella e madre». Queste parole mi interrogano, cosa vuol dire per noi diventare fratello, sorella, madre di Gesù? Siamo abituati a vederlo più che altro come padre, maestro, al massimo come amico. Gesù ci sta invitando a guardarlo con occhi nuovi, ancora inesplorati. Forse ci sta chiedendo una nuova tenerezza verso di lui, una confidenza, un affetto tutti da scoprire.

Autobiografia in dodici righe

Tra paesi e città ho vissuto finora in dodici località. In grassetto quelle dove è andata meglio; in corsivo dove è stata dura. Per ogni periodo una cosa bella da non dimenticare.

San Nicolò d’Arcidano (Or) 1963 – 1982 — Il gruppetto del sabato in ambulatorio.

Sant’Anna di Marrubiu (Or) 1982 – 1984 — Frequentare la facoltà di teologia.

Somasca (Lc) 1984 – 1985 Le partite di calcio con i cinque novizi brasiliani.

Grottaferrata (Rm) 1985 – 1987 — Le lezioni di professor Romano Penna in Laterano.

Roma (Rm) 1987 – 1988 — Vivere a Roma.

Cherasco (Cn) 1988 – 1990 — In gelateria con il gruppo dei ragazzi della parrocchia.

Torino (To) 1990 – 1993 — L’amicizia con Hassan.

Rapallo (Ge) 1993 – 1995 — La visita di Daniele e Maria Franca.

Elmas (Ca) 1995 – 2009 — Vivere con Graziano, Pier e Nino.

San Francesco al Campo (To) 2009 – 2017 — Gli straordinari animatori dell’oratorio.

San Mauro Torinese (To) 2017 – 2021 — le riunioni online  con gli animatori e i ragazzi durante il covid.

Como (Co) — 2021 – … L’accoglienza e la collaborazione di tante persone.

A questi devo aggiungere S’Archittu (Or) 1964  – … — luogo all’estremo orizzonte del mare e del tempo, nel quale ho trascorso finora circa quattro anni e mezzo della mia vita.

Gesù che canta

In questo giorno in cui si festeggia l’Eucaristia si legge il racconto dell’Ultima Cena dal vangelo di Marco. È una pagina bellissima, non c’è bisogno di dirlo. Mi soffermo, però, su un passaggio secondario, che conclude il brano. È quasi un dettaglio, ma i dettagli dei vangelo nascondono sempre una preziosa notizia. Ci fa sapere in che modo è terminata la cena: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mc 14,26).

Gesù, insieme agli apostoli, canta. Il primo pensiero che mi sorge è un desiderio, vorrei tanto sentire la sua voce cantare. Però è soprattutto quando penso al momento in cui questo è avvenuto che intuisco la grandezza del suo canto. Siamo alla conclusione dell’Ultima Cena, la prima eucaristia si è compiuta, in essa Gesù ha raffigurato la sua vita, fino all’ultimo respiro, infatti, si è reso pane spezzato per tutti. Cibarsene significa scegliere di vivere come lui, donando se stessi.

Ora sta per trasferirsi nel Getsemani, il luogo dove si compirà la sua lotta interiore. Prima di uscire, però, canta. In quel momento pieno di angoscia Gesù è capace di cantare. Qual è l’inno in questione? Si tratta di una serie di salmi, quelli dal 113 al 118, chiamati i salmi dell’Hallel, cioè della lode, che venivano pregati nelle festività gioiose, come appunto la pasqua. Canta quindi parole di gioia, di fiducia e ringraziamento a Dio. In quel momento così triste dalla sua bocca uscirono parole come queste: «Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore» (Sl 118, 17); «Ho creduto anche quando dicevo: Sono troppo infelice» (Sl 117,10); «Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto» (Sl 118,13)

L’eucaristia ci dona anche questo: poter cantare anche quando il cuore sta soffrendo.

Trinità come stile di vita

Festa della Trinità, cioè di Dio. Quello che Gesù ci ha fatto conoscere: unico Dio in tre persone, diversissime tra loro, ma unite da un amore infinito e reciproco.
Dio quindi è relazione, incontro, accoglienza… In una parola: amore. Non è un Dio perfetto ma isolato, onnipotente, ma eternamente chiuso nel suo solitario essere, non è così ed è grazie a questo che noi esistiamo.
Non solo esistiamo ma siamo fatti a immagine di questo Dio. Significa che siamo creati per essere in relazione, gli uni per gli altri, venuti all’esistenza per vivere amicizie fondate sull’amore. Il vangelo è stato scritto per questo, per insegnarci a vivere così, perché la Trinità è anche uno stile di vita.

In quale pagina il vangelo si dice questo? In ogni pagina, perché in ogni parola, in ogni gesto Gesù ci mostra un amore che ha avuto origine nel cuore della Trinità.

Prendiamo, per esempio, il brano di vangelo di oggi. È l’ultima pagina di Matteo, racconta dell’incontro in Galilea tra Gesù risorto e gli apostoli. A questi Gesù affida la missione di annunciare il vangelo a tutti i popoli, battezzandoli “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Perché l’abbiamo letto oggi? Tutti risponderemo: perché qui Gesù nomina tutta la Trinità. Sì, ma in Gesù c’è anche molto altro di “trinitario”. Osserviamo come si comporta con i suoi discepoli, i quali “Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono” (Mt 28,17).  In loro persiste il dubbio, la fede che li anima è ancora traballante, eppure Gesù era risorto dai morti… Potrebbe rimproverarli, magari ricusarli, invece non fa pesare questa grave carenza e, al contrario, conferma la sua fiducia in loro investendoli di una missione che li valorizza. Questa è pedagogia divina: non concentrarsi sulle mancanze dell’altro ma accogliere tutto il buono che è presente in lui. Poi Gesù “si avvicinò (Mt 28,18). Anche questo semplice movimento in avanti è amore trinitario: fare il primo passo verso l’altro, diminuire le distanze, farci vicini. Infine quelle parole sulle quali poggia tutta la nostra speranza: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Sono con voi: dare la nostra presenza, esserci per gli altri, sempre, giorno per giorno, senza condizioni. Anche qui è evidente quell’amore che Gesù ha imparato dal Padre.

Gesù ha “spezzettato” per noi l’amore trinitario in infiniti gesti di prossimità, accoglienza, aiuto. Ci ha mostrato così che anche per noi sono possibili. E quando li viviamo facciamo una scoperta inattesa: diventiamo più umani.

Vento di novità

Il racconto della Pentecoste che leggiamo negli Atti degli Apostoli è prima di tutto il racconto di un cambiamento, di una svolta, di una rinascita. Arriva lo Spirito Santo e tutto cambia. Da quel giorno la piccola comunità di Gesù esce, si apre, entra in relazione con gli altri e parte ad annunciare a tutti che è possibile una vita nuova, una vita diversa.

Notate un dettaglio che è molto più di un dettaglio: questo cambiamento porta scompiglio, disordine e confusione. Una forza come un vento riempie all’improvviso Il rifugio stantio degli apostoli, si ode un grande fragore, gli apostoli sembrano ubriachi. La vita cristiana non è sempre ordine, silenzio, tranquillità. Non è un’esistenza dominata da abitudini, da schemi e tradizioni immutabili. Forse è proprio il contrario di tutto questo, è novità che porta movimento, energia che diventa passione. Al confronto noi cristiani di oggi sembriamo un po’ seduti, inquadrati, dominati da abitudini.

Tre cambiamenti portati dallo Spirito Santo. Sono attualissimi.
1. Un desiderio nuovo che prima gli apostoli non sentivano e che ora erompe, quello di trasmettere ciò che loro avevano conosciuto e toccato con mano, di far conoscere Gesù. Prima si accontentavano di stare tra di loro, temevano che ogni loro parola sarebbe stata respinta e condannata, ora sono travolti dalla gioia di trasmettere Gesù agli altri.

2. Negli apostoli sorge una incredibile capacità di comunicare. La Pentecoste è prima di tutto un miracolo della comunicazione. Sanno parlare agli altri, parole che tutti comprendono, che toccano il cuore, convincono, commuovono. Perché non dobbiamo credere che anche noi oggi possiamo godere di questo stesso dono?

3. La libertà. Un vento forte e libero scuote quella comunità di uomini impauriti e li libera. La libertà è uno dei più grandi tesori cristiani, ma ancora quasi del tutto sepolto, forse il più urgente da riscoprire. Non immaginiamo quanta libertà abbiamo. Liberi da cosa? Da prigioni invisibili innalzate dentro di noi che ci paralizzano, come la paura di Dio, le ferite che ci hanno reso disillusi, i sensi di colpa che ci fanno credere imperdonabili, gli attaccamenti al passato che impediscono in noi ogni cambiamento. Si potrebbe continuare… Catene e legami che in una mattinata lo Spirito spezza per sempre.

Il mio comandamento

Non conosciamo che futuro avrà il cristianesimo nei nostri paesi, non sappiamo cosa succederà alle comunità cristiane nei prossimi anni, ma una cosa la possiamo dire con certezza: quel comandamento che Gesù ci ha affidato, proprio come un testamento, la sera prima della sua passione, resterà per sempre la regola di vita di ogni comunità cristiana:
“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15,12).

Tre motivi che rendono queste parole sorprendenti e divine:

1. Inaudito.
Era più che logico aspettarsi come primo comandamento: “amate Dio”. Dio vi ha amato, ricambiatelo. E invece troviamo un Dio che non pretende il nostro amore, che non mette al primo posto se stesso. Vuole essere ricambiato indirettamente, attraverso il nostro amore per gli altri. A pensarci bene non è una novità, Gesù aveva spiegato che ogni volta che facciamo un atto di amore verso qualsivoglia persona lo stiamo facendo a lui, “l’avete fatto a me”.

2. Quel suffisso -vi.
Significa reciprocità. Non ha detto: amate gli altri, ma amatevi. C’è una grande verità umana dietro. Il nostro bisogno più profondo è di essere amati, considerati importanti e unici, almeno per qualcuno! E c’è un altro bisogno ugualmente profondo: quello di amare, la nostra non è vita vera finché non abbiamo scoperto la gioia di donare gratuitamente.

3. Un avverbio di quattro lettere.
Alla parola amatevi Gesù aggiunge “come io”. Che significa nel mio modo, come ho fatto io, con il mio stile. Sappiamo benissimo che l’amore non è sempre giusto e sano, esiste il narcisismo, esiste l’amore soffocante, geloso, invidioso, si può arrivare a fare del male alla persona che più amiamo. Quel “come io” ci salva. Che poi vuol dire imparate da me. E qui si apre l’intero vangelo come una vera e propria scuola dell’amore autentico. Per esempio da Gesù impariamo che l’amore è sempre concreto, è fatto di pane, di piedi lavati, di strade percorse insieme, di vite salvate. Allo stesso tempo è sempre caloroso, accogliente, gratuito, capace di dare fiducia agli altri. Dal vangelo potremmo imparare decine e decine di altre stupende qualità di chi ama.

Sentirsi potati da Dio

«Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,5). Gesù ci parla del rapporto tra noi e lui. Lo fa usando l’immagine della vite e dei suoi rami. Noi siamo parte di lui, un unico corpo con lui, un unico essere, sempre, dovunque andiamo. Non so se su questa terra possa esistere un legame più forte.

A questa verità – che già ci basterebbe per tutta la vita – aggiunge alcune parole, appena un versetto, con le quali ci rivela qualcosa di inedito: «Ogni tralcio che porta frutto, il Padre mio lo pota perché porti più frutto» (cfr. Gv 15, 2). Parole assolutamente da ricordare nei giorni tristi e bui in cui la fatica e il dolore sembrano sovrastarci. Ci spiegano in che modo il Padre si prende cura di noi: potandoci.

Noi lo sappiamo bene: ogni potatura è un taglio sul vivo della pianta, che perde una parte di se stessa, rimpicciolisce, sembra ferita a morte. Invece quel taglio produrrà in lei più frutti, più vita, più bellezza.

Quella pianta siamo noi. Le potature sono i dolori e le difficoltà della vita: incomprensioni da parte di chi ci dovrebbe capire, ingiustizie che stiamo subendo, malattie, aridità dell’anima, perdita di persone care, stanchezza… Tutte cose tristi che chiamiamo sventura, sfortuna, seccature, disturbi. Gesù ci informa invece che sono occasioni per crescere e per diventare più vivi. Perché, infatti, Dio ci pota? Per purificarci da tutto ciò che in noi non è amore, non è fonte di vita. Come uno scultore che dal marmo, colpo su colpo, libera un’immagine bellissima, un’opera d’arte, così è Dio su di noi: ci pota per liberare quell’immagine divina che si nasconde in noi e che è la nostra vera identità.

Come stiamo reagendo a queste potature? Forse stanno causando in noi soltanto amarezza, tristezza, nervosismo, lamentele… Può essere però che ci accorgiamo che queste prove ci stanno aiutando a diventare più pazienti, più comprensivi, riusciamo a immedesimarci di più negli altri e nel loro dolore, più maturi, più umani.

C’è un segreto che bisogna sapere affinché le potature portino dei frutti in noi: quando arrivano bisogna “rimanere in lui”, in Gesù. Non mollare, ma in quei momenti prenderci cura del nostro rapporto con lui, alimentarlo, alzare lo sguardo verso il crocifisso. Perché è proprio da lui che abbiamo imparato che dal dolore può nascere una impensabile vita.

Mi importa di te

È martedì, ma continua a tornarmi in mente una frase del vangelo di domenica scorsa, quello in cui Gesù si descrive come un buon pastore. Parla anche del suo antagonista: Il mercenario, che agisce solo per il proprio interesse. Di lui dice: «… non gli importa delle pecore» (Gv 10, 13).

Gesù coglie un aspetto molto profondo della nostra psiche: abbiamo bisogno di essere importanti per qualcuno. Non è possibile amare la vita se non c’è qualcuno – almeno uno! – al quale noi importiamo, qualcuno che abbia piacere di stare con noi, che si preoccupi quando stiamo male, che sia premuroso nei nostri confronti. Non solo: qualcuno che ci attenda, che senta la nostra mancanza quando siamo via, perché essere attesi vuol dire essere amati.

Jacques Lacan, importantissimo psicanalista francese, aveva identificato qual è il più grande desiderio degli esseri umani. Non è il desiderio di qualcosa da consumare, né quello di soddisfare il nostro istinto, ma è il desiderio di essere desiderati dagli altri. Il desiderio dell’uomo, diceva, è il desiderio dell’altro.

Tutto questo è il buon pastore per ognuno di noi. È un Dio al quale noi importiamo, che desidera la nostra compagnia, sente la nostra mancanza quando ci allontaniamo da lui e ci attende fino al mattino del nostro ritorno, talvolta addirittura parte per le strade del mondo alla nostra ricerca.

Vorrei aggiungere un’ultima considerazione: che cos’è una comunità cristiana? È un luogo dove ognuno è buon pastore per l’altro, dove ci importa degli altri, di tutti. Ma non perché ci servono per fare delle cose, per portare avanti progetti e catechismi, ma perché gli altri ci interessano in se stessi, come persone. Sentiamo la loro mancanza anche quando non c’è nulla da fare insieme, alla fine dell’anno pastorale, durante le vacanze, alla sera della domenica.