Mi importa di te

È martedì, ma continua a tornarmi in mente una frase del vangelo di domenica scorsa, quello in cui Gesù si descrive come un buon pastore. Parla anche del suo antagonista: Il mercenario, che agisce solo per il proprio interesse. Di lui dice: «… non gli importa delle pecore» (Gv 10, 13).

Gesù coglie un aspetto molto profondo della nostra psiche: abbiamo bisogno di essere importanti per qualcuno. Non è possibile amare la vita se non c’è qualcuno – almeno uno! – al quale noi importiamo, qualcuno che abbia piacere di stare con noi, che si preoccupi quando stiamo male, che sia premuroso nei nostri confronti. Non solo: qualcuno che ci attenda, che senta la nostra mancanza quando siamo via, perché essere attesi vuol dire essere amati.

Jacques Lacan, importantissimo psicanalista francese, aveva identificato qual è il più grande desiderio degli esseri umani. Non è il desiderio di qualcosa da consumare, né quello di soddisfare il nostro istinto, ma è il desiderio di essere desiderati dagli altri. Il desiderio dell’uomo, diceva, è il desiderio dell’altro.

Tutto questo è il buon pastore per ognuno di noi. È un Dio al quale noi importiamo, che desidera la nostra compagnia, sente la nostra mancanza quando ci allontaniamo da lui e ci attende fino al mattino del nostro ritorno, talvolta addirittura parte per le strade del mondo alla nostra ricerca.

Vorrei aggiungere un’ultima considerazione: che cos’è una comunità cristiana? È un luogo dove ognuno è buon pastore per l’altro, dove ci importa degli altri, di tutti. Ma non perché ci servono per fare delle cose, per portare avanti progetti e catechismi, ma perché gli altri ci interessano in se stessi, come persone. Sentiamo la loro mancanza anche quando non c’è nulla da fare insieme, alla fine dell’anno pastorale, durante le vacanze, alla sera della domenica.

Se fosse vero…

La vicenda dei discepoli di Emmaus è nota a tanti, ma che cosa è successo quando sono tornati di corsa a Gerusalemme dagli apostoli per raccontare di quel misterioso viandante che avevano incontrato lungo il cammino? Il vangelo di oggi parla proprio di questo (vedi il testo sotto). Mentre descrivono il loro incontro con Gesù risorto egli stesso si fa presente in quella stanza.

Che reazione ci saremmo aspettati dagli apostoli? Parlo per me: gioia che esplode, abbracci a Gesù risorto, festa. Invece il vangelo ci sorprende raccontandoci la loro grande fatica a credere. Ci parla in particolare di due loro difficoltà, che forse sono anche le nostre. Innanzitutto ce li descrive “sconvolti e pieni di paura”, spiegandone anche il motivo: credevano di vedere un fantasma. Questa reazione mi sembra, in fondo, verosimile: è più facile credere a un fantasma che a uno risorto dai morti. Non solo, ma gli apostoli pensavano anche che quel fantasma fosse adirato con loro perché l’avevano abbandonato e tradito nel momento del bisogno. Gesù allora mette subito in chiaro che non ha nulla contro di loro: «Pace a voi!», li saluta così. Ed è come se dicesse: «Io sono in pace con voi, non ho nulla contro di voi, quella fiducia che avevo prima ve la rinnovo tutta e vi mando nel mondo in mio nome ad annunciare il vangelo».

Gli apostoli ci assomigliano, non è raro convincersi che Gesù sia adirato con noi, che sia scontento di come stiamo vivendo la nostra vita. Da qui, poi, ad avere paura di lui il passo è breve. Quelle parole “Pace a voi” l’evangelista le ha scritte perché arrivassero a tutti. Proviamo a immaginare il Risorto che ci dice personalmente: «pace a te, io non ho nulla contro di te, non ti condanno anzi ti mando ad annunciare il mio vangelo».

La seconda difficoltà è ancora più sorprendente: «Per la gioia non credevano ancora». Sembra strano, ma può succedere davvero. Cosa significa in fondo non riuscire a credere per la troppa gioia? Equivale a pensare: sarebbe troppo bello per essere vero. È un’idea che può venire: sarebbe troppo bello che Dio mi abbia perdonato, che mi ami con le mie debolezze, che abbia fiducia in me; sarebbe troppo bello che la vita vinca la morte, che esista un paradiso… Pensieri che non ci aiutano a vedere la realtà. Gesù reagisce molto pragmaticamente mangiando davanti a loro una porzione di pesce arrostito. Il messaggio è chiaro: guardate che è tutto vero, sono più vivo che mai, le cose stanno proprio così, per un Dio non è così difficile far accadere qualcosa di troppo bello.

Lc 24,35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.

Psicologia della risurrezione

Penso che Gesù risorto sia il personaggio più interessante di tutto il vangelo, capace di trasmettere fascino, mistero e, contemporaneamente, umanità. Indubbiamente è lo stesso Gesù che conoscevamo prima della risurrezione, non c’è dubbio su questo. Però in lui c’è anche qualcosa di profondamente diverso, al punto che i suoi più stretti discepoli all’inizio neppure lo riconoscono. Come è possibile? Che cosa era cambiato in lui? Rimando la mia personale risposta a qualche paragrafo più avanti.

Come sempre si ripete a Pasqua, Gesù Risorto ha vinto la morte. Bisogna capire bene, però, la profonda vastità della morte umana. Non è la semplice conclusione della vita, non è qualcosa di tragico, certo, ma che ci colpisce solo al termine del nostro viaggio, per cui possiamo fare a meno di pensarci per tutto il resto del nostro tempo. Non è così, la morte ci condiziona in ogni attimo. Ogni respiro è anche un respiro di meno, ogni minuto un minuto di meno, non importa se sul momento non ci pensiamo, è una cruda verità scritta nel profondo di noi che ci porteremo dietro fino alla tomba. La certezza di morire ci insegue dappertutto e tutto, fuori e dentro di noi, ce lo ripete senza sosta: il colore dei capelli, l’affievolirsi delle forze, l’usura della materia che utilizziamo, il tramonto della sera, l’arrivo dell’autunno, le morti di chi ci precede. Questa crudele verità depositata in noi è la causa del nostro stato emotivo fondamentale: l’angoscia. Forse non sbagliamo quando pensiamo che la vita sia una lotta di resistenza per non far prevalere in noi questa onnipresente angoscia. Tutto ciò è stato vero anche per Gesù di Nazaret.

Ma con la risurrezione tutto cambia, la morte non ha più potere su di lui. Gesù risorto è questo: un uomo liberato da tutte le conseguenze della morte, un uomo senza più alcuna angoscia. Dai racconti evangelici traspare in lui una gioia pacata e imperturbabile, una serenità assoluta, una misericordia totale sulle debolezze degli umani. Respira, ma senza ansimare, cucina, mangia, ma non più per necessità vitale – cosa diventerà il piacere del cibo per un corpo risorto? – gode della compagnia degli amici senza temere di perderli.

Anche il suo rapporto con la materia si è trasformato, ha un fisico – e per giunta segnato da cicatrici – ma la sua materia non è più imprigionata dallo spazio tempo: entra a porte chiuse e domina lo spazio a suo piacimento. Forse questo ci dice che il potere della morte è tale da condizionare anche la nostra fisicità e che la materia nella risurrezione rivelerà la sua verità nascosta, quella di essere “una forma di esistenza dello spirito” (André Frossard).

Non lo riconoscono subito, ora è più spiegabile, dal suo corpo umano erano scomparsi tutti i segni che la morte accumula nel tempo, in particolare sul volto che, come una carta geografica, segnala tutte le sofferenze delle nostre stagioni. Per fare un esempio imperfetto, la stessa differenza tra il volto di una persona ammalata nei suoi ultimi giorni e quello della stessa nel pieno delle sue forze. Così, ma molto, molto di più.

Il Risorto entra in azione

Il grande protagonista dei vangeli pasquali è, neanche a dirlo, Gesù Risorto. Da lui promana un fascino irresistibile. I suoi incontri con i discepoli sono per me le pagine più belle dei vangeli. Le contraddistingue un tema ricorrente: il Risorto fa “risorgere” anche i suoi discepoli. Ne avevano bisogno, dopo la morte di Gesù li scopriamo tristi, bloccati dalla paura, delusi, scettici e increduli, pieni di rimorsi perché avevano abbandonato Gesù proprio nel momento del bisogno, si sentivano di conseguenza dei discepoli falliti, buoni a nulla. Inoltre – dettaglio che ogi ce li fa sentire particolarmente vicini – erano rimasti in pochissimi, la loro comunità sembrava ormai moribonda. L’avventura con Gesù appariva per loro conclusa nel modo peggiore.

Ma ecco che Gesù risorto entra in azione, si prende cura di loro, li raggiunge nel loro nascondiglio. La porta è chiusa: entra lo stesso.

Succede allora qualcosa di nuovo: quegli uomini cambiano vita. Fino a quel momento le parole, le opere, perfino i miracoli di Gesù non erano riusciti a trasformarli. Fino alla fine avevano continuato a litigare per i primi posti, aspirare al successo, credere che Gesù avrebbe ripristinato il regno di Israele. Oggi avremmo detto che con il loro maestro non erano mai stati sul pezzo. L’incontro con il Risorto invece li cambia nel profondo. Che cos’è che ha potuto operare questo? La forza più potente che esista: la misericordia di Gesù verso di loro.

Questa misericordia viene comunicata da lui con tre doni. Il primo è la pace: «Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Non è certamente solo un saluto. Prima di tutto queste parole comunicano a loro che Gesù non è adirato per il comportamento avuto, non li umilierà, non li destituirà, è in pace con loro. È quasi incredibile: Gesù li ha talmente perdonati che non ha bisogno nemmeno di dire: – Vi ho perdonato -. Dei loro tradimenti per lui è come se nulla è stato, non ne farà mai cenno. Ecco cosa significa perdonare.

Non solo, dopo la pace aggiunge: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Che è come dire: vi mando perché ho molta fiducia in voi. Come prima, più di prima.

Il secondo dono è Lo Spirito Santo: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Sono stati talmente perdonati che ora ricevono la missione di perdonare gli altri. Quanti più possibile.

Il terzo dono sono le sue piaghe:  «…mostrò loro le mani e il fianco». Non più doloranti, sono diventate il segno dell’amore che lui ha per loro e per noi. Perché Gesù è risorto? Forse perché era Figlio di Dio? Non basterebbe. È risorto perché il dolore e la morte non hanno fermato il suo amore, Gesù ha amato sino alla fine, mentre moriva amava. Questo amore ha vinto la morte.

Gli apostoli risuscitano, Gesù ha ridato loro vita. D’ora in poi saranno anche loro capaci di misericordia. Così avviene per tutti, quando facciamo esperienza della misericordia di Dio per noi diventiamo a nostra volta misericordiosi. “I loro timori si erano dissolti toccando le piaghe del Signore, adesso non hanno paura di curare le piaghe dei bisognosi”. (Papa Francesco).

Tre passi verso il Risorto

Quando nel cammino della vita incontriamo Gesù Risorto tutto cambia. Con lui arriva una novità straordinaria (non uso mai questa parola, ma in questo caso è l’unica adatta). Una novità che scardina la convinzione più radicata e certa che possediamo, quella che ci ha persuaso a credere che la nostra vita sia un inarrestabile declino. Tutto sembra procedere in un’unica direzione: dalla vita alla morte. La giovinezza cede il passo alla vecchiaia, la salute alla malattia, la gioia alla tristezza, lo stupore all’abitudine, la festa alla fatica… Questo fatale esito è ormai scritto nel profondo del nostro inconscio.

Ma ecco irrompere la notizia della sua risurrezione ad annunciarci che così non è più, che dal giorno del risveglio di Cristo la tristezza può trasformarsi in gioia, lo sconforto in speranza, la morte in vita.

Si tratta quindi di riuscire a incontrarlo. Ne va del nostro destino. Come riuscirci? Non è un incontro scontato e automatico per nessuno. Il brano del vangelo di Pasqua sembra proprio un invito, anzi una guida, per coloro che, in ogni tempo, cercano il Risorto. Ci indica tre passi da fare.

Primo: semplicemente cercarlo. Maria Maddalena si reca al sepolcro, lo trova aperto, il corpo di Gesù non c’è più. Allora si dispera e corre dagli apostoli. A sentire ciò Pietro e il discepolo che Gesù amava corrono alla sua ricerca. Non si chiudono nel dolore della crocifissione di Gesù, non si fanno vincere dalla paura, escono fuori. Coltivare questo desiderio di trovare Gesù è il primo fondamentale passo. Non lasciarci immobilizzare da paure, delusioni e stanchezze, non stancarsi di correre verso di lui.

Secondo: come corrono? Insieme. Pietro arranca, il giovane lo precede, ma si ferma ad aspettarlo. Se cerchiamo il Signore insieme ad altri lo troveremo prima. Per questo esistono i gruppi, le parrocchie, le comunità… Per questo esiste l’amicizia.

Terzo: entrare nel sepolcro. È il momento decisivo, Pietro – quasi un detective – entra nel luogo di morte che ospitava Gesù e vi trova dei segni di vita: i teli, il sudario, tutto è ben riposto in ordine: non sono stati certo dei ladri. Non devo temere le mie oscurità, non devo scappare davanti a loro. La Risurrezione è ritrovare l’armonia perduta, superare il nostro caos, risanare ciò che geme in noi.

Ora rientrano a casa, sono pronti a incontrare il Risorto. Non sarà necessario nemmeno aprirgli la porta. Sarà lui che li raggiungerà. Senza neanche più bisogno di bussare.

Anche Giuda è stato amato

Disegno di Antoine Carrion

Ieri e oggi, Martedì e Mercoledì Santo, si leggono le pagine del vangelo sul tradimento di Giuda Iscariota durante l’ultima cena. Della vicenda di questo apostolo c’è un aspetto che mi colpisce molto: il fatto che Gesù l’ha tenuto fino alla fine nella sua comunità. Poteva mandarlo via, del resto già prima del tradimento c’era in lui qualcosa che non andava: un eccessivo attaccamento al denaro e perfino accuse che rubasse dalla cassa comune degli apostoli. Gesù poteva almeno rimproverarlo, minacciarlo, sospenderlo. La tradizione evangelica ci trasmette rimproveri a Pietro, a Giacomo e Giovanni, a Filippo, all’intero gruppo degli apostoli, mai personalmente a Giuda. È, insomma, evidente che Gesù ha sperato fino all’ultimo che quell’uomo si ravvedesse, che anche lui iniziasse a volergli bene. Una speranza tenace e, alla fine, delusa.

Perché Gesù l’ha tenuto con sé? Perché si è comportato in modo per i miei canoni troppo misericordioso con quell’apostolo fallimentare e pericoloso? Il motivo è semplice: perché Gesù era venuto proprio per quelli come Giuda, per le pecorelle smarrite, per gli ammalati non solo nel corpo, ma anche nell’anima, per quelli tentati dalle tenebre.

C’è di sicuro un messaggio in tutto questo per le nostre comunità cristiane che ci invita con forza a non escludere nessuno, a non puntare ad essere una comunità perfetta ma chiusa, di giusti ma presuntuosi. Anche quel membro non perfettamente in sintonia con gli altri, quello che protesta, che a volte disturba, che non è limpido, che critica alle spalle, anche lui deve avere un posto e per lui si deve sperare con tenacia.

Attenzione però, accoglierlo sì, ma senza diventare suoi complici. Il vangelo invita anche alla correzione schietta e fraterna gli uni verso gli altri. Un esempio: un membro della comunità mi parla male degli altri, vorrebbe insinuarmi sospetti sui responsabili, cerca di rivelarmi i loro scheletri negli armadi… Se gli voglio davvero bene non starò ad ascoltarlo, né tantomeno a gettare legna nel fuoco, non troverà in me un compare.

«Ma proprio per questo sono qui»

Durante questa settimana mi è tornata tante volte in mente la frase che Gesù ha pronunciato al termine della sua lotta interiore prima della passione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!». Una frase che per lui è stata decisiva e che potrebbe esserlo anche per noi. Dietro quelle sue parole c’è un modo diverso di vedere le cose, una rovesciamento di prospettiva che di colpo apre a qualcosa di nuovo.

Riflettevo in particolare su quel tipo di situazioni di fronte alle quali sorge forte la tentazione di andarsene, rinunciare, cambiare aria e cercare qualcosa che sia più confacente alla nostra persona. Succede, ad esempio, quando si è onesti in un ambiente di generale disonestà, innovatori tra i tradizionalisti, autentici tra l’ipocrisia. In breve, quando avvertiamo di andare controcorrente in un contesto apparentemente molto più forte di noi. Si presentano allora due possibilità: la prima è lasciar perdere e allontanarsi velocemente. Non sempre è possibile farlo materialmente, ma se non altro possiamo realizzarlo psicologicamente, non investendo più di tanto in quelle relazioni. La seconda soluzione è quella scelta da Gesù: io sono qui proprio per questo motivo, perché ho una novità da portare. Di colpo ciò che era causa di resa si tramuta in una motivazione irresistibile.

La lotta sarà dura, si può morire per queste cose. Ma anche risorgere. Gandhi diceva: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci».

Come affrontare il dolore?

L’ultima settimana che Gesù trascorre a Gerusalemme prima della sua passione è segnata da un fatto nuovo, mai successo. Per la prima volta alcuni greci, pagani ma simpatizzanti dell’ebraismo, esprimono all’apostolo Filippo questo desiderio: «Vogliamo vedere Gesù». Quando Gesù viene a saperlo invece che gioire – come io mi sarei aspettato – si turba profondamente: quei pagani per lui rappresentano tutta l’umanità, gli dimostrano che l’annuncio del vangelo ha superato i confini di Israele e sono ai suoi occhi il germoglio di un popolo nuovo che sta per nascere. Ma tutto questo ha un risvolto drammatico: significa che per lui è giunta l’ora di dare la vita.

Incomincia allora una terribile lotta interiore. Gesù non vorrebbe morire, è uno che ama vivere, è ancora giovane, la sua missione di annunciare il regno di Dio, poi, non è certo compiuta. Ma guardando un chicco di grano trova il senso della sua morte: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Io sono un piccolo seme di frumento che proprio cadendo sulla terra e morendo porterà molto frutto. Ormai il suo cuore è risolto, non prega più per essere salvato dalla morte, anzi afferma: «Proprio per questo sono giunto a quest’ora!». Trovo molto toccante vedere Gesù in questo passaggio decisivo della sua esistenza.

«Proprio per questo sono qui»: Sono parole proposte a ogni persona che vuole imparare a vivere da Gesù, che possiamo ripetere anche noi quando il dolore incrocia la nostra strada. Sono qui proprio per vivere questo dolore con amore, senza lasciarmi chiudere, amareggiare, scoraggiare.

Il dolore non è mai qualcosa di positivo, non è fatto per noi (Gesù ha passato la vita a liberare le persone dal dolore), però quando affrontiamo il dolore con amore, questo amore acquista una forza divina, produce nuova vita, vince anche la morte.

E io mi salverò? Una risposta

Franco Zeffirelli per interpretare Nicodemo nel suo film “Gesù di Nazaret” aveva scelto Laurence Olivier, uno dei più grandi attori esistenti, che lo fece con un’intensità straordinaria. Era giusto così perché Nicodemo, pur comparendo in poche scene del vangelo, questa considerazione la meritava tutta.

Oggi l’abbiamo incontrato nella pagina di Giovanni in cui dialoga nella notte con Gesù. Il quale gli fa una grande confidenza, gli spiega il motivo per cui si è fatto uomo:

«Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

È venuto con un unico scopo: salvarci. Il perché in fondo è molto semplice: Dio ama questo mondo, che è anche il suo mondo, l’ha fatto Lui, ci è affezionato.

Nonostante questa dichiarazione così esplicita e decisa in noi permane sempre un’insicurezza profonda, un’incertezza mista a paura che non riusciamo mai ad allontanare del tutto. A volte nella mente ci sorge la domanda: «E io mi salverò? O alla fine verrò condannato?». La mancanza di una risposta sicura e liberante – Anche tu sarai salvato! – non ci aiuta certo a vivere bene la nostra vita, la paura e l’amore non camminano insieme. Ci trasciniamo quindi con questo dubbio:  «Dio mi ama, questo è molto bello, però forse io mi perderò». La rivelazione ascoltata da Nicodemo ha finalmente il potere di rassicurarci da queste tristezze: anche io posso stare sicuro: l’amore di Cristo mi salverà. Solo questa fiducia assoluta nella misericordia di Gesù ci permette di vivere da figli di Dio, di amare con pienezza il mondo e tutti coloro che ci vivono dentro.

Forse qualcuno penserà: «Se le cose stanno così allora non serve più impegnarsi!». Niente di più superficiale. Risponderei: perché dici questo? Ti impegni solo quando vieni minacciato? Hai nutrito i tuoi figli per paura di una punizione o perché li amavi? San Giovanni mi verrebbe incontro: “Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore“. (Prima Lettera di Giovanni 4,18). Isacco di Ninive, venerato come santo in tutto l’Oriente cristiano, aggiungerebbe: “Ma tu non dubitare della tua salvezza… La sua misericordia è ben più vasta di quanto tu la possa concepire, la sua grazia più grande di quanto tu non osi chiedere“.

La loquacità femminile specchio del mondo

Gli anni passano ma non smetto di restare stupefatto dalla loquacità di molte donne. Lo dico senza alcuna ironia e anzi con un pizzico d’invidia. Al loro confronto mi sento un principiante della favella, un diversamente abile della parlantina. D’accordo, ci sono uomini più portati all’eloquio di molte donne e donne più riservate e concise di molti uomini, ma mi sembra fuori discussione il fatto che la maggior parte delle donne ha un rapporto con la parola diverso dalla maggior parte degli uomini. Questa differenza, come vedremo, ha avuto una conseguenza decisiva sul mondo di oggi.

Se chiediamo a un uomo: «Come stai?» constateremo che, con molte probabilità, la sua risposta sarà breve e asciutta. Io per esempio dico più o meno: «Bene, grazie» e aggiungo qualche notizia sulla mia salute e la quantità di lavoro di quel periodo. La tendenza maschile è di andare dritti al punto, alla sostanza, senza fermarsi troppo sui dettagli, i nessi con gli argomenti affini, gli aspetti secondari. Credo che a promuovere questa essenzialità linguistica sia stata la distinzione di Aristotele tra la sostanza (ciò che rende qualcosa quello che è) e gli accidenti (tutto ciò che non è essenziale). Credo anche che questa capacità di andare al nocciolo delle cose non sia certo da disprezzare, ma indubbiamente ha avuto una ricaduta negativa sulla loquacità.

Fino a un po’ di tempo fa ponevo agli altri la domanda – Come stai? – in situazioni che esigevano risposte veloci. Una volta, per esempio, l’ho chiesto a una signora mentre stavamo uscendo dalla porta di una chiesa. Le risposte delle donne erano spesso molto lunghe, articolate, dettagliate. Mi raccontavano come stavano, perché stavano così, che conseguenze aveva questo nella loro famiglia, come stava ogni membro della stessa… Una volta mi sono distratto per qualche attimo e, tornato in me, sentivo che la mia interlocutrice mi stava parlando della salute dei suoi vicini di casa. Ora faccio quella domanda solo quando so di potermi trattenere e mai in luoghi di passaggio.

Mi è capitato di domandare a un’amica, che mi sembrava confusa nella sua esposizione di un problema, di provare a distinguere gli aspetti importanti da quelli secondari. Lei mi ha risposto con candore: «Ma per me è tutto importante!». Per le donne – non tutte, certo, siamo nel campo della media – la distinzione tra fondamentale e secondario (sostanza e accidenti) è molto meno marcata che negli uomini. Ogni dettaglio è a suo modo essenziale e non può essere trascurato. Non solo, ma ogni dettaglio è collegato con tutto il resto in una rete di rapporti praticamente infinita.

Questa parola “rete” mi porta finalmente alla considerazione che desideravo comunicare: mi sembra che il mondo si sia sviluppato più nel senso femminile che maschile. Non è un centro sostanziale circondato da particolari di trascurabile importanza, no, il mondo oggi è una rete senza un centro dove tutto, ogni dettaglio, è collegato. Non solo su internet, ma anche nella cruda realtà. Un qualsiasi avvenimento (naturale, economico, culturale…), anche il più lontano, causerà conseguenze quasi dappertutto. Ogni dettaglio è diventato sostanziale, ogni particolare della vita quotidiana un link che ti lancerà nel tutto. Ricordo che una delle leggi di Murphy diceva: “Quando si cerca di isolare qualcosa, si scopre che aveva addentellati in tutto l’universo”. Avevano ragione Murphy e le donne, con buona pace per Aristotele.